Filippo Juvarra e Pietro Piffetti

Pietro Piffetti

E’ stato Giuseppe Dardanello a scoprire e pubblicare nel 2007 tre fogli, conservati nel Fondo Maggia presso la Fondazione Sella di Biella, che costituiscono il progetto di Filippo Juvarra (1678-1736) per le decorazioni del “Gabinetto di Sua Maestà nel Reggio Palazzo di Torino”. Il foglio principale, dove è presentata l’immagine di uno dei due straordinari mobili a doppio corpo per la cui esecuzione Piffetti è richiamato in patria da Roma, reca la data 29 novembre 1730. L’architetto messinese definisce dettagliatamente la complessa decorazione delle quattro pareti di questo piccolo e preziosissimo ambiente rivestito di specchi, intagli e stucchi dorati in cui si inseriscono i due spettacolari mobili a doppio corpo – decorati da finissimi intarsi in legni rari, tartaruga, avorio e madreperla e completati da bronzi dorati, modellati e cesellati da Francesco Ladatte (1706-1786) – realizzati da Piffetti tra l’inverno del 1731 e la primavera del 1734.

Filippo Juvarra
Filippo Juvarra, Disegno di presentazione del Gabinetto nel Palazzo Reale di Torino, 1730. Biella, Fondazione Sella, Fondo Maggia.

Questi disegni, pietra miliare degli studi della storia del mobile italiano, pongono alcune questioni critiche relative all’opera di Pietro Piffetti, sulle quali la storiografia non ha ancora adeguatamente riflettuto. Partiamo dalla definizione delle forme e delle linee dei mobili disegnati da Juvarra, che ritroviamo in altri mobili eseguiti da Piffetti. Il fatto rappresenta di per sé stesso un’importante novità per gli studi; non era infatti chiaro chi fosse l’ideatore di forme nuove e ardite come quelle dei due mobili a doppio corpo per il Gabinetto del re. Parve naturale alla pionieristica storiografia novecentesca che queste spettassero a un Piffetti dotato di una bravura prodigiosa. L’idea non poteva ovviamente reggere al vaglio della moderna storiografia, soprattutto dopo le ricerche di Alvar González-Palacios che hanno dimostrato come, a Roma, Piffetti lavorò a fianco dell’ebanista francese Pierre Daneau: artigiano abile nell’intarsio floreale ma non altrettanto nell’invenzione di forme – come i suoi mobili oggi noti stanno a dimostrare. Ecco dunque che i fogli del Fondo Maggia presso la Fondazione Sella, chiariscono come le forme di questi capolavori, che Piffetti farà proprie declinandole nel corso della sua cinquantennale carriera, derivano dall’archetipo messo a punto nel novembre del 1730 da Filippo Juvarra.

La collaborazione romana del giovane Piffetti con Pierre Daneau, ricostruita da González-Palacios, non risolve poi la questione del particolarissimo carattere delle tarsie di questi primi mobili torinesi. Nemmeno i disegni in questione specificano l’embricata ornamentazione intarsiata da Piffetti.  Se si ha però pazienza di guardare con attenzione il vasto corpus di disegni per decorazioni di Juvarra, ci si rende conto di come la grammatica e la sintassi ornamentale, tradotta da Piffetti in mirabili tarsie, sia del tutto prossima alle fantasie del  messinese. Dunque Piffetti in questa coppia di mobili, la cui realizzazione lo impegnò per almeno tre anni, fu fedele traduttore di specifici disegni, oggi perduti, messi a punto da Juvarra. Ancora una volta l’abile artigiano imparerà presto e farà proprie le idee e il lessico ornamentale del messinese che impiegherà per le opere successive la partenza di Juvarra per Madrid nel 1734.

Ma vi è un ultimo e non minore aspetto che lega Piffetti a un gusto ornamentale diretta espressione di Juvarra: si tratta dei materiali impiegati per le ricchissime tarsie che rivestono di legni policromi, tartaruga, avorio, madreperla i suoi mobili. Materiali completamente estranei alla tradizione torinese come anche all’opera di Pierre Daneau, che conferiscono alle superfici una matericità preziosa che fa di questi mobili una sorta di grandi oreficerie. Materiali che solo il figlio di un argentiere siciliano poteva immaginare di impiegare: oscura tartaruga, madreperla dai riflessi capricciosi, legni tra i quali, come si legge nei pagamenti della corte a Piffetti, il “fico d’India”, “l’acciaro di Calabria” e il “bosso di Sardegna” il cui colore ricorda quello del prezioso corallo trapanese. Non stupisce che in alcuni pionieristici studi novecenteschi Piffetti fosse ritenuto di “origine napoletana, meridionale”. Capita, alla migliore storia dell’arte, di sbagliare con sottile intelligenza.

Bibliografia: 
D. Rivolettiad vocem in: Dizionario Biografico degli italiani, Vol. 83, Roma 2015, pp. 573-575; G. Dardanello (a cura di), Disegnare l’ornato. Interni Piemontesi tra Sei e Settecento, Torino 2007; G. Ferraris (a cura di A. González-Palacios), Pietro Piffetti e gli ebanisti a Torino, Torino 1992

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