La commode per il marchese Domenico Serra

Giuseppe Maggiolini commode Serra

Giuseppe MaggioliniCommode, 1784
Intarsiata in legni vari con applicazioni in ottone dorato.
Già Genova, palazzo Serra
Ubicazione ignota

Bibliografia:
G. A. Mezzanzanica, Genio e lavoro, biografia e breve storia delle principali opere dei celebri intarsiatori Giuseppe e Carlo Francesco Maggiolini, Milano 1878, pp. 55 e sgg.
G. MorazzoniIl mobile intarsiato di Giuseppe Maggiolini, Milano 1953, pp. 18-19
G. Beretti, Giuseppe e Carlo Francesco Maggiolini, l’officina del Neoclassicismo, Milano 1994 pp. 57-61
A. Gonzàlez-Palacios, Il mobile in Liguria, Genova 1996, pp. 285-288
G. Beretti, A. Gonzàlez-PalaciosGiuseppe Maggiolini, Catalogo ragionato dei disegni, Milano 2014, p. 337
G. Beretti
La commode Serra del 1784, in G. Beretti, a cura di, Maggiolini al Fuorisalone, catalogo della mostra (Milano, Galleria San Fedele, 13-19 aprile 2015), Milano 2015, scheda 7

Palazzo Serra a Genova fu uno dei luoghi più famosi del Neoclassicismo europeo. Il suo salone divenne meta imprescindibile di ogni colto viaggiatore che visitasse la Superba. A questo proposito sono numerosissime le descrizioni che questo ambiente meritò nei diari di viaggio e nelle guide sette-ottocentesche. Le ha collazionate Alvar González-Palacios[1]. Così scriveva, ad esempio, Charles Dupaty nelle sue Lettres sur l’Italie del 1785:

“Sono le sei del mattino. La mia immaginazione si sveglia nel salone di Palazzo Serra o, piuttosto, nel Palazzo del Sole. Abbasso ancora le palpebre; non si può dire lo splendore di questa stanza. Così come appare la natura attraverso un prisma, così ci sembra la sala… Che luce! Che pavimento! Che colonne! quanto oro! quanto azzurro! quanto porfido! quanto marmo! Il nome che qui conviene è quello di magnificenza”.

Anche la scrittrice Lady Morgan, al secolo Sidney Owenson, così ricorda quel magnifico salone nel suo Italy del 1821:

“Certamente uno dei più ricchi anche so non dei più grandi d’Europa, è tutto oro, specchi, marmo, rabeschi, cariatidi. Richiama ugualmente gli appartamenti di rappresentanza delle Tuileries e il Café des Mille Colonnes del Palais Royal; Il suo impatto decorativo è ottenuto con la ripetizione delle colonne corinzie negli specchi”.

Etienne Jouy nel suo L’Hermite en Italie del 1824:

“In ogni particolare questo salone sciorina un lusso prodigioso di dorature, di sculture, di marmi, di specchi immensi, di pietre rare e preziose, di dipinti di grandi maestri, di ricchi bronzi […]. Le pareti sono ricoperte di stucchi color lapislazzuli; le pendole che decorano i caminetti e i due tavoli parietali, già colmi dei più fastosi candelabri e di vasi singolari, sono da sole costate seicentomila franchi. Le numerose lancette di brillanti segnano non soltanto i secondi, i minuti, le ore, i giorni, le fasi lunari, ma tutto quello che è possibile misurare”.

Charles De Wailly
Da Charles De Wailly, Alzato di una delle pareti del salone di Palazzo Spinola poi Serra, 1772-73. Genova, Palazzo Rosso, Gabinetto dei Disegni

Questo prodigioso salone, famoso come “il salone di palazzo Serra”, fu in realtà voluto da Cristoforo Spinola, ambiziosissimo ambasciatore della Superba a Parigi, smanioso di sfoggiare un palazzo con interni degni di uno dei più ricchi Hotels particuliére parigini. Volle che progettista del grande salone fosse il celeberrimo architetto Charles de Wailly (1730-1798), che mise a punto un progetto così ricco da essere presentato al Salon del 1773 e pubblicato nell’Encycolopédie. Impegnato a Parigi nei più prestigiosi cantieri per la corte, della direzione dei lavori fu incaricato l’architetto genovese Andrea Tagliafichi (1729-1811) che, per l’occasione, nel corso del 1774 soggiornò lungamente a Parigi, a spese dello Spinola, dove fu introdotto anche nel celebre salotto di Madame Geoffrin. L’investimento finanziario fu però tale che il committente dovette, per ripianare i debiti, vendere, nel 1778, il palazzo al ricchissimo banchiere Domenico Serra, anch’egli affetto da ambizioni smisurate ma supportate da mezzi assai più solidi.

A restituirci con precisione l’immagine del salone purtroppo perduto oggi sono tre disegni: uno autografo di Charles de Wailly, a Parigi presso il Musée des Arts Décoratifs, uno dell’architetto Sir Robert Smirke (1780-1867) del 1802 a Londra presso il Royal Institute of British Architects e, ultimo, una copia di quello che de Wailly presentò al Salon del 1773, conservato a Genova presso il Gabinetto dei Disegni e Stampe di Palazzo Rosso. Tutto ciò era però destinato ad andare perduto. Accadde a causa dei bombardamenti anglo americani che devastarono Genova nel 1942. Col palazzo andarono perduti la gran parte dei mobili in esso contenuti; tra questi, probabilmente, anche la commode che il Marchese Serra aveva commissionato al celeberrimo Intarsiatore delle Loro Altezze Reali Giuseppe Maggiolini nel 1784.
Leggiamo, a questo proposito, la narrazione che il biografo di Maggiolini don Mezzanzanica fa di questa commessa. È un poco romanzata, ha un tono a tratti insopportabile; tuttavia fornisce notizie di prima mano e, in questo caso, trascrive anche un brano tratto del “Giornale di Milano del 26 luglio 1784 in cui il mobile è puntualmente descritto:

“Un giorno Maggiolini consegnava in casa Borromeo un elegante lavoro, non so ben se fosse un tavolo, od un comò, e trovavasi presente il marchese Domenico Serra Genovese. Colpito questi dalla maestosità di quel lavoro: ecco, disse questo è l’artista che deve fare il mio canterano, e pregò Maggiolini che gli facesse, o facesse fare il disegno, raccomandandosi solamente che lo si facesse più ricco che fosse possibile. Maggiolini si rivolse al Levati, e ne ebbe varij, che però non riuscirono a soddisfare il genio del Sig. Marchese, il quale , alla presentazione di ciascun disegno replicava: più ricco ancora, più ricco. Levati non perdette la pazienza, anzi da quel buon uomo che era, mise a tortura tutto il suo ingegno, e riuscì a comporne uno che a tutta ragione poteva chiamarsi: l’estremo sforzo dell’arte del disegno intarsiabile. Questo mi piace, disse il Marchese nell’esaminarlo attentamente; eseguitelo al più presto, e non si badi a quanto possa ammontare la spesa; e cominciò ad antecipargli qualche migliajo di lire. Maggiolini, incoraggiato anche da questo bel tratto di magnanimità, si accinse tosto all’opera. Il lavoro presentava non poche difficoltà, poiché era un compendio di tutti i rami dell’arte, ma l’artista, colla sua inalterabile pazienza, ad una ad una, riuscì a superarle tutte, ed in modo mirabile, sicchè dopo circa un anno di lavoro, facendo e disfacendo, da molte braccia tutte interessate allo scopo, potè essere terminato e consegnato in casa Borromeo per la spedizione. Fu per varij giorni un via vai della nobiltà e celebrità artistiche di Milano, comprese, ben inteso, le LL.AA.RR., a vederlo, e si volle decisamente che fosse accompagnato a Genova dallo stesso autore, con carrozzone di casa Borromeo. […]. Venne loro pagato il canterano, che costò una ventina e più migliaia di lire, (1400 zecchini d’oro) venne regalato al padre un orologio, ed altro d’argento al figlio […]. Ne furono solamente questi che riportarono a casa, ma ben anco la commissione di altri diversi capi di lavoro per accompagnamento al canterano, che furono essi pure egregiamente eseguiti e tuttora si conservano a rendere testimonianza irrefragabile del lustro della casa e dell’abilità dell’artista. Dalla raccolta dei disegni, che ho sott’occhi, puossi argomentare che a Genova Maggiolini s’aprisse una ricca sorgente di lavoro […]”.

Ecco quanto riferisce in proposito il “Giornale di Milano” in data 26 luglio 1784.

“Amico Carissimo, Voi vi mostrate ansioso di sapere cosa siasi detto dai molti nostri milanesi, che hanno veduto lo stupendissimo cumò fatto per un gran signore genovese, dal signor Maggiolini, già celebre abbastanza, come sia eccellente nell’arte dell’intarsiatura. Io dunque per appagare la vostra curiosità vi dirò in breve, che da quello che ne so io stesso, fu osservato colla maggiore soddisfazione, e col più vivo piacere, tanto da quei che se ne intendono assai, quanto da quei che ne sanno poco, ma che hanno non pure dei buoni occhi per vedere la roba bella e di buon gusto. In particolare vi fu chi lodò una cosa e chi l’altra. A chi piacevano singolarmente, come a me, quei freschi e leggiadri fiori, a chi fecero sorpresa le tre belle medaglie, che sembravano proprio dipinte, e con quella bellissima architettura, sulla quale l’occhio vi delizia piacevolmente ingannato. Eravi ancora a chi garbava moltissimo il nuovo disegno, con tutti quei graziosi e scelti ornati. Ma poi infine dopo di tutto ciò, tutti convenivano essere, come dissi, un cumò stupendo, stupendissimo, e sicuramente una delle più belle opere, che si abbiano vedute finora in questo genere”[2].

Fortunatamente nel Fondo dei disegni di bottega ancora si conserva il grande cartone preparatorio che Giuseppe Maggiolini e i suoi collaboratori misero a punto per questa commessa (Inv. F 3)[3]. Il disegno, a penna e finemente acquerellato, presenta in modo minuzioso a grandezza naturale metà della facciata di quella commode. Il ductus e la cura progettuale di ogni dettaglio ornamentale, fanno pensare che esecutore ne sia stato, come riferisce Mezzanzanica, il fidato Giuseppe Levati (1739-1828).

Agostino Gerli Giuseppe Levati progetto commode Serra Giuseppe Maggiolini
Agostino Gerli e Giuseppe Levati (attribuito a), Progetto per il comò del Marchese Domenico Serra, 1784. Matita, penna e acquerello su carta bianca, mm. 1045×750. Milano, Gabinetto dei disegni delle Raccolte artistiche del Comune di Milano, Raccolta Maggiolini, Inv. F 3 recto

Sono anche altri, nel Fondo, i disegni riconducibili all’esecuzione di quest’opera celeberrima. La prima idea è forse quella fissata in due idee di facciate di commodes su un foglio (Inv. B 194)[4] al cui verso compare uno schizzo di un piano in marmo con le misure e la scritta: “Cop.to del Sig. Domenico / Serra con sua Gros.za”. La mano, questa volta, non è quella di Giuseppe Levati. Piuttosto si sarebbe tentati di avvicinare questo foglio, dal segno veloce, ad Agostino Gerli (1744-1821) o a suo fratello Giuseppe a cui è riconducibile il bel progetto di una commode (Inv. C 40)[5]. Un secondo foglio (Inv. B 242)[6], diligente ma non autorevole, è una copia di bottega del grande cartone. Un terzo (Inv. B 769)[7] è lo specimen ornamentale di una delle due riserve della facciata, con il dettaglio della maniglia in bronzo.
L’organizzazione compositiva è modulata secondo il gusto neoclassico milanese, codificato nei volumi a stampa di Giocondo Albertolli (1743-1839) il primo dei quali fu edito nel 1782, due anni prima di questa commessa. L’ornamentazione si fa minuta nei festoni di fiori, nei fregi e nelle bordure di legni policromi. Nel cartone l’acquerellatura di Levati suggerisce i colori; gli appunti autografi di Maggiolini le scelte dei legni. Al centro della facciata è una medaglia ovale – nel cartone lo spazio è lasciato vuoto – a cui ne corrispondeva una più piccola e disposta verticalmente al centro dei fianchi.
L’articolo del “Giornale di Milano” ricorda come a molti di quelli che videro il mobile esposto in palazzo Borromeo, “fecero sorpresa le tre belle medaglie, che sembravano proprio dipinte”. Tre disegni con allegorie su sfondi di rovine classiche, ancora nel Fondo e firmati Giuseppe Levati (Inv. B 126-128)[8], presentano le figurazioni che Maggiolini tradusse in tarsia.
Completavano il mobile belle montature in bronzo dorato; anche queste sono minuziosamente definite nel disegno, colorate di giallo.
A questa documentazione grafica si è recentemente aggiunta una preziosa immagine fotografica del mobile, ritrovata da Francesca Tasso, direttrice delle Raccolte Artistiche del Comune di Milano. Si tratta di uno scatto di Giulio Rossi (1824-1884), probabilmente effettuato nel 1874 in occasione dell’”Esposizione storica d’Arte industriale”, dove il mobile, all’epoca ancora di proprietà di un Domenico Serra omonimo discendente del committente, fu esposto assieme ad un folto gruppo di opere di Giuseppe Maggiolini. Il confronto tra il cartone e il mobile mostra come Maggiolini tradusse con assoluta fedeltà ogni minimo dettaglio del progetto; con altrettanta fedeltà – e molta abilità – dipinse coi legni anche il capriccio architettonico con le figure allegoriche di Giuseppe Levati ben visibile nella fotografia al centro della facciata.

Giuseppe Levati capriccio per tarsia commode Serra Giuseppe Maggiolini
Giuseppe LevatiCapriccio architettonico con le figure allegoriche della Pace e dell’Abbondanza, 1784. Matita, penna e acquerello su carta bianca, mm. 257×365. Milano, Gabinetto dei disegni delle Raccolte artistiche del Comune di Milano, Raccolta Maggiolini, Inv. B 126

[1] A.Gonzàlez-Palacios, Interni genovesi fra barocco e classicismi, in Il tempio del gusto. La Toscana e l’Italia Settentrionale, Milano 1986, 2 Voll., I, pp. 347 e sgg. [2] G. A. Mezzanzanica, Genio e lavoro, biografia e breve storia delle principali opere dei celebri intarsiatori Giuseppe e Carlo Francesco Maggiolini, Milano 1878, pp. 55 e sgg. [3] G. Beretti, A. Gonzàlez-PalaciosGiuseppe Maggiolini, Catalogo ragionato dei disegni, Milano 2014, p. 337 [4] Ibidem, p. 137 [5] Ibidem, pp. 250-251 [6] Ibidem, p. 144 [7] Ibidem, pp. 228-229 [8] Ibidem, pp. 116-117

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